Ugo Caffaz –
ha speso tutta la sua vita per combattere l’entropia del razzismo e per cercare di affermare un concetto – che è biblico ed è laico allo stesso tempo – ovvero l’unicità del genere umano. Concetto che ritroviamo nelle grandi religioni monoteiste e che poi ritroviamo nella invenzione laica delle liberal democrazie di massa. Tutti gli uomini sono uguali. Davanti a Dio, davanti alla legge, davanti agli altri uomini e donne. Una vita spesa per vedere questo concetto affermarsi come base comune della convivenza civile, prima e oltre le divisioni politiche, religiose o di qualunque altra appartenenza. Per raccontarci di questo Caffaz è venuto una fredda sera di fine anno all’Aned, sezione di Firenze, per raccontare la sua vita e per rispondere alla domanda: “perché faccio parte dell’Aned?”.
Ugo Caffaz è ebreo, italiano, fiorentino ed è stato un politico di “razza”. E’ stato Consigliere e Assessore in Provincia, per 16 anni in Consiglio comunale a Firenze, in Regione ha lavorato per tanti anni senza mai andare in aspettativa, Caffaz è il grande artefice dei viaggi della Memoria. Fu lui a riportare Primo Levi ad Auschwitz, era il 1982. Da allora ha organizzato la più grande forma di partecipazione di giovani studenti a regolari e preparati viaggi della Memoria nei campi di sterminio nazisti. Da qualche anno intervallati dalla grande giornata della Memoria al Mandela Forum di Firenze, come Consigliere per le politiche della memoria della Regione Toscana.
Cosa è venuto a raccontarci Caffaz? La storia della sua vita. Una storia fatta di persecuzione e di salvezza e di quella cosa che chiamiamo per ignoranza o per pigrizia “caso” e che somiglia sempre ad uno zampino messo dal destino tutte le volte che succede il miracolo.
“Era il novembre 1943. Mia madre stava cucinando, quando una vicina di casa suonò alla porta dicendo ‘scappate, arrivano i tedeschi!’. Mia mamma lasciò la padella sul fuoco, prese mio padre e mia sorella – che all’epoca aveva un anno e mezzo – e insieme raggiunsero alcuni parenti che erano già fuggiti a Chiesina Uzzanese, rifugiandosi presso una famiglia di contadini, i Parlanti, che abitava lungo quella che ora è l’autostrada e che li accolse senza pensare ai rischi che correvano quanti aiutavano gli ebrei. Dai Parlanti era nascosta parte della famiglia di mia madre, tra fratelli e sorelle più i vari figli.
Altri familiari riuscirono a salvarsi in altre campagne. Avevano scavato sottoterra una specie di nascondiglio dove rifugiarsi quando c’erano i bombardamenti o le retate. Mia sorella, che allora aveva un anno e mezzo, ricorda ancora la terra che le cascava sulla testa. Il ricordo più importante di questa vicenda mi è stato raccontato non da mio padre, ma da Rolando Parlanti, che allora aveva dieci anni. Un giorno, mentre suo padre stava tornando dal forno con due pani sotto il braccio, vide lungo l’autostrada i tedeschi che avevano rastrellato dei giovani da portare via, tra cui mio padre – che ancora non era stato riconosciuto come ebreo ma come renitente alla leva. In uno slancio di incoscienza e furbizia, Parlanti mise in mano un pane al tedesco che li sorvegliava e prese mio padre, salvandogli la vita. Scambiò quindi mio padre per quella ruota di pane, tant’è che, quando mi capita di raccontare questa storia, dico sempre che “sono figlio di un pezzo di pane”. Ma non finisce qui. Non sono solo figlio di questo salvataggio, ma anche di un altro episodio. Mia madre aveva infatti fatto un voto, giurando che qualora tutta la sua famiglia si fosse salvata, avrebbe fatto un figlio, nonostante avesse quasi 40 anni. Quindi sono figlio di un pezzo di pane…e di un voto”.
La morte prematura della madre, gli anni in istituto a Torino, la frequentazione con il “medico di Primo Levi”, Leonardo De Benedetti, i racconti agghiaccianti che via via entravano nella vita di Caffaz, travolto da una volontaria e involontaria scoperta di quanto era accaduto. A 6 anni Caffaz vede le foto dello sterminio. Poco più grande, a otto anni, ascolta le prime testimonianze. Un deportato racconta di essersi salvato rimanendo immobile tra un mucchio di cadaveri, fingendosi morto tra i morti. Aveva poco prima assistito ad un terribile episodio. Dei nazisti avevano distribuito della carne, accolta con immensa gioia tra i deportati che mangiavano praticamente niente. Dopo il pasto, avevano poi svelato loro che si trattava della carne dei loro figli appena ammazzati.
A questo racconto, Ugo crolla a terra di colpo, sviene.
E’ qui che il racconto si fa anche commosso. Doppiamente commuovente, data la fermezza emotiva e la grande lucidità che ha sempre contraddistinto Caffaz. Eppure, ancora oggi, alla fine del 2017, abbiamo dovuto chiedergli: “perché fai parte dell’Aned, l’associazione degli ex deportati?”. Qualche anno fa questa domanda ci sarebbe sembrata banale, retorica, forse anche offensiva. Oggi siamo a riattribuire senso alle nostre azioni, per cercare di capire insieme perché, 72 anni dopo la liberazione di Auschwitz, fatichiamo ancora ad affermare quel principio che ha attraversato nelle forme dell’impegno civile e politico, tutta la vita del nostro ospite.
Noi siamo tutti uguali.
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